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Sul Bhagavadgītā

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Bhagavadgītā
Bhagavadgītā

Ho letto il Bhagavadgītā. L’ho comprato tra i libri usati a soli 2 euro alla biblioteca comunale di Pontedera. Mi hanno fatto riflettere molto alcuni versi che trattano del falso ego materiale, da cui bisogna prendere le distanze. Il falso ego di cui parla questo antico poema, che ha ispirato Gandhi per tutta la vita, non è il falso Sé della psicologia contemporanea, che indica un’identità fittizia che non trova alcuna corrispondenza nella realtà. Noi possiamo crearci, costruirci, inventarci un falso Sé per vivere meglio, per rifugiarci dal reale. Il falso ego del poema invece rappresenta la condizione umana. Il falso Sé di cui tratta la psicologia ce l’hanno in pochi ed è patologico, mentre il falso ego materiale è presente in tutti. Il falso ego, qui, rappresenta l’anima che è incarnata nel corpo e da esso condizionata. Il falso ego, qui, è ciò che ci tiene ancorati alla realtà, ovvero la materia. Le catene della materia riguardano tutti noi. Sempre nel Bhagavadgītā è scritto che bisogna liberarsi dalla passione e dall’ignoranza. In questo libro sacro è insita la convinzione che la materia sia falsa, illusoria, effimera. Insomma “la realtà non esiste”, come cantava Claudio Rocchi. Non è il corpo che va assecondato, ma siamo noi che dobbiamo liberarci, per quanto possibile, da esso. Secondo il Bhagavadgītā noi dobbiamo curare non il corpo ma la nostra anima individuale. Anche la nostra mente però è frutto della materia. Secondo questo poema la liberazione avviene soprattutto tramite l’atto devozionale, ovvero la devozione a Dio. Molto probabilmente anche l’Oriente si sta occidentalizzando a macchia d’olio. Però l’Oriente è ancora permeato dagli antichi insegnamenti dei Veda, delle Upanisad. È vero che noi siamo occidentali dalla testa ai piedi, che forse è utopistico e molto difficile “buscare a Oriente”, espressione presente in una poesia di Mario Luzi. Platone con il mito dell’auriga ci aveva avvertito che uno dei cavalli, quello più irrazionale, è la concupiscenza. Nell’Ecclesiaste è scritto che tutto è vanità. Anche l’appagamento dei sensi è effimero ed è vanità. Noi occidentali abbiamo avuto la concezione cristiana secondo cui il corpo è fonte di peccato. Nei vangeli si trova scritto che l’uomo non vive di solo pane. Oggi si potrebbe estendere il concetto, affermando che l’uomo non può vivere di sola immagine. L’Occidente ha avuto però anche il dualismo cartesiano tra res extensa e res cogitans. Ha avuto la rivoluzione industriale e quello che Marx definiva il feticismo delle merci. Insomma l’uomo è diventato cosa tra le cose e ci sono cose che in termini monetari valgono più della stragrande maggioranza di noi uomini. Abbiamo avuto la scienza, secondo cui siamo solo carnali e mortali. Anche nel Bhagavadgītā c’è scritto che per chi è nato l’unica certezza è la morte e per chi è morto l’unica certezza è la nascita, ma è un’opera che indica una via d’uscita e quindi porta speranza. Ricordo a proposito che il Bhagavadgītā è un dialogo continuo tra Dio e Arjuna, un guerriero. Così come va tenuto presente che la corporeità, secondo questo poema, fa dimenticare agli uomini il legame con la divinità. È, quindi, soltanto purificando la nostra coscienza che possiamo connetterci con Dio. Sempre in questi versi si trova scritto che noi siamo una goccia nel mare e bisogna riconoscerci come infinitesima parte del Creato e di Dio. L’unica soluzione pratica invece per il materialismo occidentale sarebbe solo se la scienza ci rendesse forever young, sempre sani e immortali. L’unica via d’uscita in ottica materialistica è l’elisir di eterna giovinezza. Alcuni anni fa si pensava che il virtuale avrebbe permesso una comunione di anime in dimensioni immateriali. La realtà è che oggi su Internet conta moltissimo l’immagine, l’aspetto fisico. D’altronde il materialismo occidentale è anche uno strumento del consumismo e la materia, la carne possono essere sfruttati, consumati, mentre lo spirito no (lo spirito può essere plagiato, ma questo è un altro discorso). La cultura occidentale in gran parte è nichilista, necrofila, autodistruttiva. È la cultura occidentale, intesa in senso lato, che ha prodotto gli orrori delle guerre, le camere a gas, Hitler e Stalin (la Russia è Occidente). Come uscire dal nichilismo? Le vie indicate, ovvero ritornare a Parmenide (come voleva Emanuele Severino), una letteratura mitopoietica, una maggiore religiosità, una trasvalutazione dei valori (come voleva Nietzsche) sono difficilmente praticabili, forse irrealizzabili. Finisce così che l’Occidente procede per inerzia verso l’abisso. Sempre a proposito di impulsi autodistruttivi Cioran scrisse che molti suoi pensieri erano stati ispirati dall’idea del suicidio e non si sapeva spiegare il motivo, visto che si riteneva attaccato alla vita. Camus scrisse “Il mito di Sisifo”, che considerava un saggio contro il suicidio. Questi non sono casi isolati ma emblematici del fatto che la cultura occidentale è intrisa di Thanatos, per quanto la società odierna, grazie al progresso scientifico, sia sempre più biopolitica, come insegna Foucault. Questo conflitto tra cultura umanistica e medicina è causa di grande lacerazione interiore. Per Guénon comunque non bisogna contrapporre Oriente ed Occidente, né assimilare e accomodare in modo fuorviante, semplicistico, grossolano l’Oriente, ma bisogna prendere ciò che l’Oriente ha di buono, di utile e da esso trarne giovamento. Se noi occidentali non possiamo capire e abbracciare totalmente le dottrine orientali, però la profondità di esse possono arricchirci interiormente. Tutto ciò non sarebbe mero orientalismo di materia, ma ricerca autentica di un nuovo senso delle cose e del mondo! A ogni modo è vero che bisognerebbe anche prendere il buono della cultura occidentale e leggere la Bibbia (in modo non letterale), tanto per cominciare! Personalmente diffido dei sincretismi religiosi, ma ci sono testi sacri orientali da cui possiamo trarre insegnamento e che possono aiutarci in quanto sapienziali e spirituali.

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